– PARTE 2 –
NON VEDO L’ORA DI DIVENTAR BAMBINO
Era timido quel bambino “così bravo e buono”, “che non si vede e non si sente”, “silenzioso e pensieroso” che ha iniziato a parlare molto, molto tardi.
I bambini, in genere, iniziano a parlare verso i 20/21 mesi, ma quel bambino no, quel bambino, a quasi 36 mesi, ancora non parlava. Il logopedista ed il pediatra che lo visitarono, tranquillizzarono i genitori e dissero loro che, il bambino, era semplicemente“pigro”, non aveva voglia di parlare e che, quindi, non c’era nessun problema medico.
Così, scampato il pericolo di un vero e proprio problema medico, ogni giorno, davanti ai suoi occhi, un lunghissimo viale di mattoni ed un giardino immenso pieno di giochi, di scivoli ed altalene, si riempivano di bambini come lui. Cioè più o meno della sua età.
Nessuno sapeva che a lui, quel posto, faceva paura. Nessuno lo sapeva perché non lo aveva detto a nessuno. Ma lui lo sapeva bene, aveva percepito che c’era una strana energia.
Osservava silenzioso quello strano ambiente dall’odore di colla di Vinavil, pastelli e tanta cattiveria.
BUM BUM BUM. Il suo cuore batteva forte forte ogni volta che arrivava l’ora di mangiare.
Prima della preghiera, che faceva finta di pronunciare muovendo solamente le labbra, si sedeva vicino ad un suo piccolo compagno perché sapeva che, forse, lo avrebbe aiutato. Era uno dei pochi “eletti” a cui lui, di nascosto da tutte quelle vecchie signore con lunghi abiti neri, parlava.
Le suore passavano silenziose tra i tavoli di legno a versare il cibo nei piatti. Lui chinava la testa, impaurito. Annusava gli odori che riusciva a distinguere e cercava di calmare la sua mente. Si guardava attorno con i suoi grandi occhi scuri aspettando il momento giusto. Ecco, forse ora può versare il suo cibo nel piatto del suo piccolo aiutante.
Di colpo, un violento ceffone dietro la nuca lo coglieva di sorpresa. Una voce arcigna gli gridava di mangiare il proprio pranzo. Le lacrime del bambino si mescolavano al sapore acre delle verdure.
A lui non piacevano proprio ma, la mano spigolosa di una vecchia suora, gliele infilava in bocca con la forza, incurante del pianto silenzioso che gli rigava il viso. Ad ogni rigurgito seguiva la stessa operazione: raccogliere tutto e rimetterlo in bocca. Perché “è un peccato sprecare il cibo”.
E così, preso di peso e portato in un angolo della sala a mangiare il suo stesso vomito, quel bambino aveva capito che urlare non serviva a nulla. Lo sapeva perché aveva osservato.